Le aziende utilizzano l’innovazione per generare e applicare conoscenze, sviluppare nuovi prodotti e servizi, nuovi modelli di business e, infine, ottenere risultati negli affari. Tradizionalmente, le aziende innovano solo utilizzando risorse interne, ma da qualche tempo si è aperta l’era della open innovation, che considera l’ambiente esterno non come ostile e concorrenziale rispetto alla crescita di un’impresa, ma come alleato. Ecco di cosa si tratta.

 

L’innovazione tradizionale

L’“innovazione aperta”, più nota come open innovation, rappresenta un approccio all’innovazione differente da quello tradizionale. Quest’ultimo dà la priorità al volume delle risorse, al numero di progetti e agli investimenti nell’innovazione. Di conseguenza, le organizzazioni con modelli di innovazione chiusi tendono ad avere grandi dipartimenti di ricerca che generano molta conoscenza interna. Queste organizzazioni in genere misurano le prestazioni dell’innovazione utilizzando rapporti come la percentuale di spesa in ricerca e sviluppo. Tuttavia, è noto che questo rapporto, da solo, mostra solo il volume dell’investimento del progetto ma non riflette l’effettivo risultato aziendale.

Le aziende che utilizzano modelli di innovazione chiusi di solito incontrano i seguenti problemi:

  • la conoscenza generata internamente è incompleta. Al giorno d’oggi, il contributo di fonti esterne è d’obbligo poiché la tecnologia si sta evolvendo molto velocemente a livello globale.
  • A volte, questa conoscenza non arriva sul mercato, o perché non ne soddisfa esattamente le esigenze o perché impiega troppo tempo. Se è troppo lenta, infatti, la conoscenza acquisita diventa presto obsoleta oppure le priorità aziendali cambiano.
  • La priorità è mantenere le stesse risorse e budget anno dopo anno e l’innovazione esterna è vista come concorrente.

 

Cos’è l’open innovation?

L’open innovation invece descrive una situazione in cui una realtà per l’innovazione dei propri prodotti, servizi, modelli di business, processi ecc. non fa affidamento soltanto sulle proprie conoscenze, fonti e risorse interne – il proprio personale o la propria sezione di ricerca&sviluppo, per esempio –, ma utilizza anche più fonti esterne come guida: feedback dei clienti, brevetti pubblicati, concorrenti, agenzie esterne, pubblico…

Esistono due tipi di open innovation:

  • inbound, che riguarda l’approvvigionamento e l’acquisizione di competenze dall’esterno dell’organizzazione e la scansione dell’ambiente esterno alla ricerca di nuove informazioni per identificare, selezionare, utilizzare e interiorizzare le idee.
  • outbound, cioè la commercializzazione intenzionale di idee sviluppate internamente nell’ambiente esterno dell’organizzazione, attraverso la rivelazione di un prodotto a giornalisti e revisori o la vendita della tecnologia o del servizio ai clienti al fine di ottenere feedback.

Nelle organizzazioni che utilizzano modelli aperti, dunque, si collabora con generatori di conoscenza esterni. E l’obiettivo principale del dipartimento di innovazione è di collegare e integrare i team interni con fonti di conoscenza esterne. L’innovazione interna infatti esiste ancora, ma si concentra in modo specifico sulla creazione di conoscenze che non possono essere trovate all’esterno, purché commerciabili.

Oggi, questo modello viene adottato da molte aziende in tutto il mondo per accelerare il ciclo dell’innovazione e fare di più impiegando meno risorse. Soprattutto se applicato fin dalla fase di ideazione, oltre che a quella di sviluppo, perché:

  • i contributi esterni aumentano la qualità delle idee
  • lo sviluppo tecnologico è più rapido
  • il rischio è minore a causa della sua connessione con il mondo esterno.
  • è possibile comprendere meglio le reali sfide del progetto
  • il team focalizza meglio i sui punti chiave ed è in grado di valutare più potenziali soluzioni

 

Gli ecosistemi OP

Ogni membro di una comunità di innovazione aperta è un elemento chiave, perché porta idee e si impegna nello sviluppo di prodotti e servizi innovativi. Ma per essere efficace, la comunità deve concentrarsi su una serie di competenze specializzate, nonché sulla diversità, a creare ecosistemi virtuosi. Gli ecosistemi di open innovation sono infatti hub con reti che lavorano attorno a un obiettivo comune e devono quindi, prima di tutto, ruotare intorno a un interesse comune nella co-creazione e nello sviluppo di nuove tecnologie e soluzioni a medio o lungo termine.

Il potere di un ecosistema è determinato perciò dalla sua capacità di sviluppare innovazioni rivoluzionarie attraverso la co-creazione tra diversi membri. Una capacità che si matura quando l’ecosistema è sinergico, tra integrazione della catena del valore (clienti e fornitori), collaborazione intersettoriale, scambi di conoscenze in rete globale e diversità dei membri (start-up, esperti, università, ecc.). Ne sono un esempio il mining sostenibile, la stampa 3D, l’Internet delle cose (IoT) e in generale i progetti a impatto sociale.

Per aumentare, variare e migliorare le progettualità, creando un ecosistema solido, l’open innovation mette a disposizione diversi strumenti: scuole, università, centri di ricerca oppure partnership e scouting rispetto a start-up e PMI particolarmente innovative o ancora le call for ideas, gli hackaton e gli acceleratori.

A Roma è appena sorto un esempio ideale di ecosistema OP: la Casa delle Tecnologie Emergenti (CTE). Un modello per l’implementazione del quale il MiSE ha selezionato Roma, Torino, Bari, Prato e l’Aquila come sedi, nell’ambito della volontà di incentivare lo sviluppo della competitività italiana, l’innovazione del sistema produttivo, la digitalizzazione della PA e la valorizzazione delle eccellenze tecnologiche.